Alla 19° edizione degli NC Awards tornano i panel dedicati all’approfondimento delle tematiche più calde del mondo della comunicazione.
Il primo, dal titolo ‘Numeri, sentiment e tendenze della nuova comunicazione’ ha visto la partecipazione di Federico Capeci, CEO Italy & Spain, Kantar, Marina Manfredi, Peroni Family Brand Director, Birra Peroni e Presidente di Giuria NC 2025 e Giorgio
Brenna, President & CEO, FCB Partners. A moderare l’incontro, Salvatore Sagone, presidente ADC Group.
Oggi la pubblicità non è più solo creatività e intuizione, ma anche analisi, dati e capacità di ascolto: il messaggio pubblicitario è sempre più plasmato da ciò che il pubblico sente, dice e condivide in tempo reale. Numeri e sentiment si intrecciano, dando vita a strategie dove la razionalità dei dati incontra l’emotività dei consumatori. Il panel ha voluto offrire una lettura delle tendenze che stanno ridisegnando la comunicazione: dalle trasformazioni nei comportamenti d’acquisto alla ridefinizione dei codici narrativi, dai nuovi modelli di consumo esperienziale alla ricerca di purpose concreto e misurabile. Uno scenario in rapida evoluzione che richiede alle aziende e ai loro partner di ripensare linguaggi, formati e contenuti per costruire conversazioni credibili e rilevanti.
Come ha spiegato Salvatore Sagone introducendo gli ospiti, le strategie dei brand stanno cambiando per rispondere alle nuove esigenze dei consumatori in un contesto in cui concretezza, autenticità e ricerca di senso, quella che in gergo si chiama meaningfulness, sembrano diventare i pilastri fondamentali.
Ma cosa ci dicono oggi le ricerche più interessanti sui comportamenti dei consumatori?
“Diamo un po’ di numeri – commenta Capeci (Kantar) –. Da un’analisi del nostro database BrandZ di Kantar, rileviamo che il 30% dei brand che operano in Italia, italiani o internazionali, ha o una buona equity, oppure un grande future power, quindi una
prospettiva futura, perché riusciamo a stimarlo in base a tutti gli analytics che facciamo su questa banca dati. Eppure solo il 13% ha entrambe, cioè una buona equity e un buon potenziale. Il che significa che circa la metà dei brand noti, anche rilevanti oggi, non ha futuro”.
Allo stesso tempo significa che una grande parte di piccolissimi brand iniziano ad avere un potenziale molto allargato. “Ecco che in questa lotta nella comprensione delle tendenze di quello che accadrà, non sono più solo i grandi a combattere”.
Per arrivare in maniera più efficace alla testa e nel cuore del consumatore, oggi i brand devono adottare nuovi comportamenti rispetto al passato. “Sembra contraddittorio suggerire di mantenere un profilo concreto e di sostanza, ma nello stesso tempo lavorare sull’emotività. Ci hanno sempre detto che le due cose potevano una complementare l’altra.
Gli anni’80 sono stati anni di grandissima immagine, gli anni precedenti erano più concreti. Ecco, questa credo che sia la sfida di oggi. I tre fattori fondamentali che permettono all’azienda di cogliere le tendenze e di cavalcare il futuro sono: primo, una buona rispondenza ai benefici funzionali e reali, ovvero la capacità di comprendere cosa il consumatore mette nell’equazione di valore, perché il consumatore non accetta più di pagare più di quello che riceve. Quello che riceve dipende dagli altri due fattori: un fattore identitario, oppure un fattore sociale”.
Quindi, come riuscire a mettere insieme questi due fattori? “Secondo noi si deve abbandonare un concetto di brand image superficiale, fino ad arrivare a quella che oggi è vera fonte della meaningfulness: l’interpretazione culturale, cioè esserci, cioè dire ‘io capisco quello che sta succedendo’.E questo è uno dei modi più efficaci per connettersi con il consumatore in modo molto concreto e molto vero, permettendogli di sentirsi parte di qualcosa di collettivo”.
Ci sono dei valori che sono universalmente riconosciuti in tutta Europa e ci sono dei valori che sono più importanti in Italia che in altri Paesi. “Ad esempio, l’esigenza di controllo, di lavoro duro, del divertimento, in Italia oggi inizia a essere meno rilevante di altri fattori che sono quelli del learning, dell’umanità, della connessione tra le persone, del capire che cosa sta succedendo – spiega Capeci (Kantar) -. Questo dimostra quantitativamente – perché questi sono tutti fattori rilevati da survey – l’importanza di far capire alle persone il contesto che abitano. Una case history esemplare, è, ad esempio, la celebre campagna di Esselunga della “pesca” che metteva di fronte una situazione estremamente reale oggi, di una famiglia che si sgretola o si ricompone attorno a una figlia. Ecco, la campagna di Esselunga, che noi abbiamo monitorato proprio tutti i giorni, ha detto che per un’azienda basterebbe anche solo mettere in scena l’attualità. Non occorre necessariamente intraprendere l’attivismo o avere un’opinione. Anche solo metterla in scena oggi viene apprezzato dal consumatore”.
Un’altra campagna molto più recente che va in questa direzione è quella di McDonald’s con Achille Lauro. “Pensate il passaggio che fa quell’azienda nel dire che è unconventional come Achille Lauro. Se a rompere le regole è McDonald’s il messaggio acquisisce una forza ancora più grande e crea il famoso senso del “noi” di cui alcune generazioni hanno bisogno di riappropriarsi”.
Passiamo al punto di vista aziendale. Come si costruisce oggi un messaggio perché possa essere vissuto in maniera autentica e significativa dalle persone? “Prima di tutto, è fondamentale creare una strategia che abbia un senso per il brand, ma che abbia anche un senso per le persone”, commenta Manfredi (Peroni). Una volta che è chiara la strategia, è fondamentale capire quali sono il tono di voce e il punto di vista aziendale.
Nella giuria degli NC Awards abbiamo valutato parecchie campagne e credo che una che abbia veramente colto un dato interessante in termini di insight sia quella di Durex.
Nell’insight emerge che il 57% dei giovani non utilizza il preservativo e l’azienda ha cercato di capire il perché. Ed ecco che qui vi è il lavoro di un’azienda che ha pensato e lavorato per comprendere quale oggi deve essere il suo ruolo. Se vi ricordate, le
comunicazioni passate di Durex giocavano molto sull’ironia per superare le barriere. Il passaggio che vediamo in questa campagna è l’aver trovato un entry point, un punto di vista differente dove raccontare un bisogno che è effettivamente quello del consumatore e lavorare sulle barriere della campagna e anche del prodotto”.
Anche per il brand Peroni la meaningfulness è centrale. “Abbiamo il purpose di unire gli italiani oltre le differenze – prosegue Manfredi -. È un posizionamento storico, poiché l’azienda ha sempre accompagnato il cambiamento della società negli anni. Quello che abbiamo fatto per rispondere all’evoluzione della società è stato domandarci che cosa vuol dire oggi andare oltre le differenze. Questa domanda che ci siamo fatti, un po’ come ha fatto anche Durex, ci ha portato a capire qual è il dato, qual è l’insight, qual è la diversità, cioè il punto su cui la società è più lontana in termini di uguaglianza. Ed effettivamente, lavorando con il nostro partner Ipsos su questo progetto che abbiamo lanciato da una settimana, il progetto Beher, abbiamo identificato dei dati molto interessanti che ci fanno vedere come in realtà qualcosa che dovrebbe essere superato è ancora molto presente,soprattutto nell’ambito lavorativo, perché il 30% degli italiani riconosce che la differenza tra uomo e donna, soprattutto nel campo economico, è ancora la disuguaglianza più presente in Italia.
Da qui iabbiamo deciso di utilizzare il nostro brand di punta, Peroni, per poter stimolare un dibattito su qualcosa che è rilevante e che molto spesso viene dimenticato. Come lo abbiamo fatto? Qui entra un po’ in gioco il discorso del presentarsi con un insight rilevante. E noi sappiamo che abbiamo contribuito negli anni alla creazione di uno stereotipo femminile con ‘la bionda’, che era una campagna bellissima nel momento in cui è stata lanciata. Non la stiamo rinnegando, ma stiamo semplicemente dicendo che anche la nostra bionda è cambiata, oggi è solo una birra, rivalutiamo la bionda con occhi diversi.
Questa è la campagna. Ma in realtà il grosso del lavoro è stato fatto prima internamente. E ci abbiamo lavorato con partner molto focalizzati sulla diversità – Valore D e Fondazione Libellula – che ci hanno aiutato a costruire tutta la parte che chiamiamo Academy, in cui lavoriamo per sensibilizzare sugli stereotipi che continuano ad alimentare questo gap.
Abbiamo lavorato con Ipsos per continuare a monitorare la situazione e poi abbiamo attivato borse di studio nel nostro campo per incrementare il numero di donne all’interno dello STEM e, perché no, anche nelle nostre fabbriche”.
Si è parlato di purpose, spesso in passato associato all’aspetto corporate di un brand e non tanto a quello di prodotto. Come oggi è diventato una leva di marketing vera e propria? “Noi non lo chiamiamo purpose, ma ‘la raison d’etre’, perché il cliente è di matrice francese” spiega Giorgio Brenna. “In realtà, il purpose è passato di moda nel nostro mercato per tanti anni. Perché è corporate e il corporate affair non fa comunicazione. Adesso sta un po’ tornando sulla cresta dell’onda dando il purpose sulla base di servizio prodotto, oppure per divisione. Per esempio, ci sono delle aziende conglomerate che hanno diverse divisioni,
dai loro un purpose per divisione e poi lo vogliono anche tutti gli altri e si finisce per darlo darlo alla corporation. In realtà, io trovo difficile elaborare una strategia vera senza il purpose. Ho cominciato nel’92 in questo settore e a quel tempo gli istituti di ricerca erano all’interno dell’agenzia. Quindi c’era l’agenzia creativa e l’agenzia aveva internamente il reparto ricerche, il reparto media e il resto che faceva creatività. Poi è stato tutto scorporato, negli anni. E’ un fenomeno ondivago: ai giorni nostri deve essere tutto integrato, se non altro dal punto di vista operativo”.
Come affrontare la convivenza di più generazioni e più linguaggi?
Commenta Capeci: “Beh, intanto brand universali parlano di valori universali. L’amicizia, l’amore, la musica, l’inclusione sono valori universali. Quello che in realtà sta cambiando molto e che secondo me rappresenta un buon elemento di novità è l’importanza del tone of voice, di cui si parla un po’ poco ultimamente. Nel senso che si parla molto di messaggio, però, oltre al messaggio, che magari può essere universale, oltre al linguaggio, che evidentemente è un veicolo di comunicazione importante, il tone of voice oggi risulta particolarmente importante come il giusto modo di comunicare lo zeitgeist di cui abbiamo parlato prima. Lo spirito del tempo della generazione Z è uno spirito di battaglia, lo spirito dei millennial è più concettuale, lo spirito della generazione Z è più di evasione e lo spirito del boomer è più di positività e di opportunità. Ciò si può declinare in termini di comunicazione, cioè il tono di voce può cambiare veramente tantissimo e rappresentare un diverso modo di mettere insieme tutte le generazioni”.
Concorda Manfredi. “Aggiungo, inoltre, che per noi la strategia comprende anche il capire chi sono le persone con cui andiamo a parlare, che a volte non sono solo i consumatori ma sono tutti gli stakeholder di quel progetto e quindi è importante la chiarezza del messaggio, che non è detto che venga veicolato nello stesso modo a tutte le persone e negli stessi touch point. Per questo poi oggi parliamo più di un ecosistema. Per cui secondo me questa è la parte più importante: prima ancora di costruire il contenuto, bisogna avere chiaro come si declina il messaggio tra i diversi target, qual è il tono di voce che dobbiamo utilizzare per diversi touch point e soprattutto qual è la profondità del messaggio che poi portiamo”.
Conclude Brenna. “Ci dobbiamo orientare partendo dalle ricerche, dalle tendenze. Di nuovo, dal nostro punto di vista creativo, il messaggio, il tono di voce, il linguaggio sono oggi la gran parte del lavoro. In tutto questo gli insight sono fondamentali. Insight sempre più collegati alla realtà. Come nel caso della nostra campagna per Crédit Agricole, che è un esempio chiave di un cambio di tono di voce e di linguaggio per la comunicazione di un grande istituto bancario”.
Serena Roberti